Una madre, una lettera, una speranza che rompe il silenzio: dalla voce stanca ma determinata di Gherta Arnaboldi, mamma e caregiver di una figlia con tetraparesi spastica, nasce un appello che arriva fino al Ministero della Disabilità. Una richiesta di giustizia e riconoscimento che accende una luce sul futuro di migliaia di famiglie invisibili.
| Gherta Arnaboldi e la figlia |
Chiara frequenta la scuola al mattino. È una ragazza come tante, con sogni, desideri, fragilità. Ma il suo corpo non risponde come vorrebbe. La tetraparesi spastica la rende totalmente dipendente da chi le sta accanto. Nel pomeriggio, quando Gherta è al lavoro, Chiara spesso resta a casa da sola o viene accudita dai nonni. Una rete familiare che tiene, sì, ma che mostra tutte le sue crepe. Perché il tempo passa, i nonni invecchiano, le energie diminuiscono. E il futuro fa paura.
È da qui che nasce la lettera. Una lettera inviata al Capo dello Stato, Sergio Mattarella, e alla Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Una richiesta chiara, concreta, tutt’altro che ideologica: consentire ai genitori caregiver di andare in pensione anticipata con 30 anni di contributi. Non un privilegio, ma una misura di civiltà. Non un regalo, ma un riconoscimento di un lavoro che dura una vita, senza ferie, senza malattia, senza orari.
In quelle righe Gherta non racconta solo la sua storia. Racconta quella di migliaia di madri e padri che ogni giorno tengono in piedi un sistema che altrimenti crollerebbe. Famiglie che suppliscono alle carenze dei servizi, che rinunciano a opportunità, che sacrificano salute, carriera, relazioni. Famiglie che chiedono di non essere più invisibili.
La risposta arrivata dalla ministra per la Disabilità, Alessandra Locatelli, rappresenta un primo segnale importante. Non una soluzione definitiva, certo, ma un’apertura. Un varco. Nella lettera inviata tramite il Gabinetto del Ministero, Locatelli sottolinea come sia “prioritario rafforzare e riconoscere il ruolo centrale svolto dai caregiver familiari nell’assistenza”, annunciando l’istituzione di un tavolo tecnico congiunto con il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Un tavolo che ha già prodotto un testo normativo, un disegno di legge che per la prima volta punta a dare un riconoscimento giuridico al ruolo del caregiver, prevedendo tutele specifiche, calibrate sull’intensità e sulla durata dell’assistenza prestata. Il provvedimento è ora all’esame del Dipartimento per gli Affari Giuridici e Legislativi della Presidenza del Consiglio e, una volta approvato in Consiglio dei Ministri, sarà trasmesso al Parlamento.
Spero che non si traduca solo in un assegno. Abbiamo bisogno che venga riconosciuto il pensionamento anticipato. Sarebbe una necessità, prima ancora che un riconoscimento.
Le sue parole non sono una rivendicazione egoistica. Sono un grido che parla di futuro. Perché chi assiste un figlio con disabilità grave non può essere costretto a scegliere tra lavoro e cura. Non può arrivare a sessantasette anni con un corpo logorato, una mente stanca e ancora sulle spalle la responsabilità totale di un’altra vita.
Intanto, attorno alla storia di Gherta e Chiara, cresce una comunità. La petizione su change.org che chiede il prepensionamento dei caregiver ha superato le 24mila firme. Un numero che racconta un disagio diffuso, trasversale, che attraversa l’Italia da nord a sud. Dietro ogni firma c’è una storia simile: un figlio, una figlia, una madre, un padre. E la stessa domanda: chi si prende cura di chi si prende cura?
La lettera di Gherta ha aperto un dialogo. Ha costretto la politica ad ascoltare. Ha acceso una luce su una realtà troppo spesso confinata nelle mura domestiche. Ed è qui che nasce la speranza. Non quella ingenua, ma quella ostinata di chi sa che il cambiamento è lento, ma possibile.
Per Chiara, per Gherta, per tutte le famiglie caregiver, questa risposta non è un punto di arrivo. È un inizio. È la dimostrazione che una voce, anche se sola, può farsi strada fino ai palazzi del potere. E che raccontare, denunciare, chiedere, serve ancora.
Perché la dignità di una società si misura anche da come riconosce chi ama, cura e resiste ogni giorno, senza clamore. E oggi, grazie al coraggio di una mamma, quella dignità ha fatto un piccolo, importante passo avanti.