C’è una fotografia crudele che racconta più di qualsiasi cifra ministeriale, più di qualsiasi conferenza stampa, più di qualsiasi promessa ripetuta da decenni: quella della solitudine. La solitudine di migliaia di famiglie italiane che convivono ogni giorno con la disabilità cognitiva, una condizione che non concede tregua e che, come ha scritto magistralmente Enzo D'errico nel suo toccante editoriale pubblicato sul Corriere della Sera, «non ha scampo: chiunque la incontri è condannato a una perenne solitudine».
D'errico lo chiama uno spettro. Uno spettro che “si aggira nella vita di migliaia di famiglie italiane” e che non trova mai spazio nelle agende della politica. La disabilità cognitiva è un tema scomodo: non genera consenso, non produce ritorni elettorali, non porta folle in piazza. È una presenza silenziosa, che abita le case, i corridoi delle scuole, gli ambulatori affollati, e che troppo spesso rimane confinata nel retrobottega della società, come se riguardasse solo chi la vive.
Eppure, osservando la vicenda di Lucia Pecoraro, l’anziana madre di Corleone che ha strangolato la figlia autistica Giuseppina prima di togliersi la vita, quel silenzio diventa assordante. È una storia che ferisce, che respinge, che mette paura. Ma D'errico ci invita a fare un passo diverso: non a giustificare quel gesto estremo — che non può e non deve mai essere giustificato — ma a comprenderne le radici, ad “immaginare il dolore inestinguibile di una madre” che per quarantasette anni ha portato sulle spalle un destino più grande di lei.
La domanda che ha consumato Lucia, scrive D'errico, è la stessa che tormenta ogni genitore di un figlio con disabilità cognitiva:
Chi si prenderà cura di lui quando io non ci sarò più?
È un interrogativo che non lascia scampo, una ferita che non si rimargina mai. Nessun genitore lo dice ad alta voce, ma tutti lo pensano, soprattutto quando la notte cala e le energie si assottigliano. Perché la disabilità cognitiva non dorme, non concede pause, non permette di immaginare un futuro autonomo. E lo Stato, troppo spesso, non c’è.
D'errico lo denuncia con una lucidità tagliente: non abbiamo fatto nulla, come collettività e come politica, per prevenire tragedie simili. Nulla per costruire un sistema che accompagni queste famiglie lungo tutto il percorso di vita dei loro figli. Nulla per evitare che l’ultima possibilità sembri un abisso.
Eppure una risposta legislativa era arrivata: la famosa legge sul “Dopo di Noi”, varata durante il governo Renzi. Un’idea giusta, necessaria, che avrebbe potuto davvero aprire un varco nel buio. Ma D'errico non si nasconde dietro eufemismi: quella legge è rimasta un’incompiuta.
I fondi sono pochi, spesso ridicoli rispetto al fabbisogno reale; le Regioni applicano le misure in modo diseguale; il meccanismo di rinnovo annuale delle richieste sfiora l’assurdo. È davvero possibile immaginare — domanda provocatoriamente D'errico — che un ragazzo autistico possa “guarire” in dodici mesi, come se la sua fragilità si potesse aggiornare come un modulo online?
E poi c’è la burocrazia. La spirale di carte, appuntamenti, domande e solleciti che ogni genitore conosce a memoria. D'errico descrive con precisione la realtà: bisogna “stare incollati al dirigente di turno”, sperare nella sensibilità di un ufficio, pregare che i fondi non vengano dirottati altrove. È un calvario. Ma paradossalmente, scrive, è ancora preferibile al buio totale.
A questo si aggiunge la lenta agonia dei Comuni, ormai strangolati dai tagli di spesa, incapaci di garantire neppure gli standard minimi di assistenza. Il risultato è una frattura sociale che D'errico mette in luce senza pietà:
chi ha soldi può provare a salvarsi; chi non li ha, resta intrappolato.
E i costi, nelle strutture private, superano spesso i duemila euro al mese, cifre che molte famiglie non possono nemmeno pensare di affrontare.
Ma il punto centrale dell’analisi — quello che pesa come un macigno — riguarda la natura stessa dei servizi destinati ai disabili cognitivi. D'errico spiega che vengono classificati come pazienti sanitari, e questo impedisce che gli aspetti fondamentali della loro vita, quelli legati all’inclusione sociale, vengano finanziati con fondi pubblici.
È un paradosso crudele: la vera cura non è un farmaco, non è un ricovero, non è una stanza con un letto e un armadio; la vera cura è la relazione, è la partecipazione, è la continuità dei legami. Tutto ciò che rende un essere umano parte di una comunità.
Ma queste attività non ricevono finanziamenti. Gli esperimenti di cohousing, che potrebbero rappresentare una soluzione efficace e umana al “dopo di noi”, faticano a ottenere supporto economico. Rimangono solo le RSA, strutture sanitarie che non sono nate per includere, ma per contenere. Strutture in cui tanti adulti con autismo o disabilità cognitiva si trasformano in fantasmi: nutriti, assistiti, sedati, ma non vivi.
E allora sì, come scrive D'errico, sembra che questi ragazzi e queste ragazze “scompaiano dai radar” una volta raggiunta l’età adulta. Il loro destino ricade interamente sulle famiglie, lasciate sole, senza strumenti, senza respiro, senza futuro. In questa solitudine maturano i drammi che poi arrivano sui giornali in forma di tragedie. Tragedie che tutti fingiamo di non vedere, finché non esplodono.
La conclusione dell’editoriale è amara e coraggiosa:
ci vorrebbero meno lacrime e più leggi.
Meno cordoglio e più responsabilità.
Meno proclami e più investimenti.
Ma l’ultimo colpo è il più duro, quello che non vorremmo ascoltare e che invece Enzo D'errico pronuncia con una sincerità che brucia:
I disabili non votano e i loro genitori hanno ben altro da fare che occuparsi di politica.
E allora la domanda che ci consegna — una domanda che non possiamo più eludere — è:
dietro tanta indifferenza si nasconde proprio questo?
Il fatto che queste persone non rappresentano un bacino elettorale appetibile?
Se fosse così, sarebbe la più grande sconfitta morale del nostro Paese.
L’articolo di Enzo D'errico, apparso sul Corriere della Sera, è un pugno allo stomaco, un invito a svegliarci, a vedere ciò che fingiamo di non vedere. È anche un possibile punto di svolta: perché la solitudine delle famiglie non può più essere la colonna portante del sistema.
Non servono eroi. Servono leggi giuste, servizi continui, percorsi di vita dignitosi.
Servono comunità che non si voltino dall’altra parte.
Servono risposte prima che un’altra Lucia, perduta nel buio, senta di non avere più scelta.
Finché questo non accadrà, quello spettro continuerà a camminare accanto a noi. E non potremo più dire: non lo sapevamo.
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